Avvocato del Foro di Milano
1. IL TEMA
Il tema oggetto della presente analisi attiene alla valutazione dell’impatto delle modifiche, sul predetto rapporto fra frode fiscale e falso in bilancio, apportate dal d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158 alla fattispecie di frode fiscale di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 74/2000, e dalla legge 27 maggio 2015 n. 69 al reato di falso in bilancio disciplinato dall’art. 2621 cod. civ. Il rapporto fra frode fiscale e falso in bilancio è stato da sempre oggetto di numerosi dibattiti dottrinali e di diversi orientamenti giurisprudenziali (1). L’opportunità di studiare questa materia deriva dal fatto che neanche questa volta la riforma del diritto penale tributario (non lo fece peraltro neanche il decreto legislativo n. 74/2000) ha disciplinato il rapporto in esame.
Né si è occupata di ciò la citata riforma del diritto penale societario. Ciò detto, il tema di indagine del presente contributo è il rapporto del falso in bilancio realizzato al fine esclusivo di evadere le imposte, con l’art. 3 del D.Lgs. n. 74 del 10 marzo 2000 (e cioè la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, id estla frode fiscale) così come modificato dalla recentissima riforma penale tributaria di cui al d.lgs. n. 158/2015.2.
2. LA VEXATA QUAESTIO DEL RAPPORTO FRA FRODE FISCALE E FALSO IN BILANCIO
Prima di analizzare le menzionate modifiche e il loro impatto sul rapporto tra i due noti reati, ripercorriamo come la questione de qua era stata studiata e decisa rispettivamente da Dottrina e Giurisprudenza. Ricordiamo, anzitutto, che la sentenza n. 4128 del 31 marzo 2000 della V Sezione penale della Cassazione (2) rappresentava un ritorno della Suprema Corte all’orientamento tradizionale, che aveva sempre affermato la specialità della frode fiscale rispetto al falso in bilancio purché realizzato al fine esclusivo di evadere le imposte (3).
Tale posizione consolidata era stata posta in crisi dalla nota sentenza n. 9567/1998(4), con la quale la Corte aveva affermato la configurabilità del delitto di false comunicazioni sociali nei confronti dell’Erario, senza peraltro minimamente affrontare la questione del rapporto di tale delitto previsto dall’art. 2621 del codice civile (ritenuto, dalla Corte, applicabile al caso deciso) con le fattispecie di frode fiscale. Alla menzionata oscillazione giurisprudenziale si era pervenuti sull’onda del dibattito tra gli assertori della tesi (5) secondo cui il falso in bilancio non è configurabile nei confronti del Fisco, e gli esponenti del contrapposto orientamento (6).
Precisiamo che per motivi di brevità, ci limitiamo a schematizzare il dibattito sulla base del noto contrasto giurisprudenziale del 2000 (7). La tesi - elaborata da parte di un orientamento dottrinale (8) e fatta propria della citata sentenza n. 9567/1998 della Corte Suprema - secondo cui la fattispecie di false comunicazioni sociali poteva contemplare anche l’Erario tra i suoi soggetti passivi, era stata criticata da acuta dottrina (9), alla quale rinviamo, limitandoci a sottolineare la censura a nostro avviso più efficace.
L’Autore citato individuava acutamente - seppure al riguardo vedi infra nel testo le riflessioni in parte divergenti - quale corollario della tesi della ricorrenza del falso in bilancio nei confronti dell’Erario, l’applicazione di tale fattispecie anche a ipotesi (basti qui citare l’evasione inferiore al limite quantitativo minimo penalmente rilevante) non considerate (10) in ambito penale tributario con l’assurdo che un comportamento meno grave non rilevante per il diritto penale tributario poteva essere punito più duramente di un comportamento più grave di evasione.
In allora si considerò che tale paradosso apparentemente inconfutabile (12) poteva essere superato in virtù di considerazioni sistematiche. In ciò e con ciò, non determinando apoditticamente la conclusione che, criticata la critica, rivivesse per ciò solo la tesi criticata. In stretta connessione con la questione dell’inclusione o meno dell’Erario tra i soggetti passivi del delitto di false comunicazioni sociali, sorgeva il quesito circa l’applicazione o meno dell’art. 2621 del codice civile alle violazioni tributarie non contemplate dalla legge penale tributaria. In allora si ritenne che laddove si osservasse un’interpretazione (13) dell’art. 15 del codice penale volta a ritenere sussistente una specialità con riferimento all’intera legge penale tributaria, le conclusioni potevano essere di tal guisa: essendovi, cioè, nell’ordinamento giuridico una legge speciale per i rapporti tributari, non si applicava la norma generale (14) (id est le false comunicazioni sociali) a quei comportamenti che la legge penale tributaria, deputata specificamente a disciplinarli, non aveva voluto incriminare.
A ciò un ipotetico contraddittore avrebbe potuto obiettare che in tal caso non vi era una specialità vera e propria, in quanto l’art. 15 del codice penale richiede che un medesimo comportamento sia punito da due norme, una generale e una speciale. Ma a ben vedere, a tale ipotetico contraddittore si replicò sostenendo che l’art. 15 del codice penale adopera il termine "regolano" e non "puniscono".
Quindi, la mera evasione dolosa al di sotto dei limiti quantitativi della legge penale tributaria - e senza il quid pluris richiesto per la frode fiscale - non poteva essere punita in base alla fattispecie di falso in bilancio (le conclusioni sarebbero mutate se vi fossero state nel caso concreto anche finalità extratributarie). E ciò non in quanto il reato di false comunicazioni sociali non poteva essere astrattamente applicabile anche in relazione al destinatario Erario, bensì giacché la materia degli interessi tributari e delle relative violazioni, essendo regolata specificamente dalla legge penale tributaria, non consentiva intrusioni di altre leggi. Vero è che se non fosse esistita la legge penale tributaria si sarebbe potuto applicare l’art. 2621 del codice civile.
Ma è vero altresì che siccome esisteva (ed esiste), si applicava essa a tutta la materia delle violazioni degli interessi tributari, e non l’art. 2621. Sulla scorta delle riflessioni sin qui svolte, si ritenne, al riguardo, di valorizzare l’orientamento tradizionale della Suprema Corte (15): se le violazioni tributarie non penali avevano esclusiva finalità di evasione fiscale, si applicava la legge penale tributaria, e quindi le ipotesi da essa considerate non penalmente rilevanti erano da considerare lecite per e nell’intero ordinamento giuridico. Tale impostazione consentiva anche di affrontare la questione della rilevanza penale delle questioni valutative.
Mentre l’ art. 4 , lettera f), della L. n. 516/1982 conteneva la locuzione "fatti materiali" - con ciò escludendo la rilevanza penale tributaria delle falsità valutative a esclusiva finalità fiscale - la riforma di cui al d.lgs. n. 74/2000 (che aveva eliminato la suddetta locuzione), invece, ricomprendeva nel proprio ambito di rilevanza tali valutazioni; diversamente si sarebbe riproposta la questione della riconducibilità o meno alla fattispecie dell’art. 2621 del codice civile delle menzionate ipotesi di falsità nelle valutazioni.
Alla luce della teoria adottata, si ritenne consequenziale la non applicabilità dell’art. 2621 del codice civile, in quanto l’esclusiva finalità fiscale della violazione attraeva quest’ultima nella materia tributaria e indi nell’ambito della speciale legge penale tributaria.
3. IL CONCORSO APPARENTE DI NORME
Infine, prima di procedere alla valutazione dell’impatto sul rapporto fra frode fiscale e falso in bilancio delle recenti riforme penale tributaria e penale societaria, e alle nostre conclusioni al riguardo, si richiama la nozione di concorso apparente di norme, che si verifica quando a una stessa situazione di fatto possono applicarsi apparentemente più norme, ma l’applicazione di una di esse esclude le altre (16). Occorre, in altre parole (17), che vi sia non soltanto una pluralità di norme, ma altresì la loro convergenza verso la medesima situazione di fatto: il verificarsi di questo requisito presuppone che gli accadimenti storici, i quali si possono riportare al contenuto delle norme in questione, coincidano sul piano naturale, nel senso che l’uno sia contenuto nell’altro (cosiddetta unità naturale); oppure che, pur difettando questa unità naturale, la situazione non si presenti, rispetto ai fini delle norme, sostanzialmente diversa (cosiddetta unità normativa).
Orbene, nell’ipotesi che più norme concorrano rispetto alla medesima situazione di fatto (come supra delineata), l’inapplicabilità di una norma consegue all’applicabilità dell’altra, tutte le volte in cui quest’ultima esaurisca, con la sua valutazione dell’accadimento, l’intero significato di esso. Infatti, se così non fosse, l’applicazione di entrambe le norme contrasterebbe con il principio del ne bis in idem sostanziale. La dottrina (18) per tentare di risolvere le incertezze in tema di concorso apparente ha individuato molteplici criteri: specialità, consunzione, sussidiarietà, alternatività. Soltanto il primo di tali criteri ha una sua espressa disciplina specifica nell’art. 15 del codice penale, mentre il secondo ha una disciplina diffusa in diverse fattispecie della cosiddetta parte speciale del codice, ed un richiamo implicito nella clausola di salvezza del citato art. 15.
Quanto alla sussidiarietà ed all’alternatività, esse si limitano a esprimere l’ontologia stessa del concorso apparente, e cioè che si applica una norma e non l’altra, non fornendo un quid pluris che li possa far assurgere a criteri degni di tal nome. Alla luce della delineata nozione di concorso apparente, si ritenne che esso sussisteva con riferimento al rapporto tra false comunicazioni sociali al fine esclusivo di evadere e frode fiscale, con applicabilità soltanto del secondo delitto. E si ritenne di non condividere le critiche rivolte dalla citata dottrina (19) all’applicabilità al tema in esame del criterio di specialità; sarebbero stati ostativi: 1) l’almeno tendenziale maggiore ambito dei soggetti attivi del reato fiscale rispetto a quello societario; 2) la diversità dell’elemento soggettivo tra le due fattispecie; 3) il diverso momento consumativo di frode fiscale e falso in bilancio.
In allora (20) si osservò anzitutto che, delineati i soggetti del reato fiscale e quelli dell’art. 2621 del codice civile, non sembrava condivisibile che l’ambito soggettivo attivo del reato di frode fiscale fosse più esteso di quello delle false comunicazioni sociali. Inoltre, soprattutto alla luce delle riforme, il dolo specifico di evadere ed il dolo di ingannare l’Erario per trarne profitto non sembravano avvolti da una nube di incomunicabilità ed insovrapponibilità: tutt’altro. Infine, alla luce dei sovra delineati concetti di unità naturale e unità normativa quali sottoinsiemi dell’entità "medesimo fatto", non appariva decisivo neanche l’ostacolo, peraltro considerevole, del diverso momento consumativo. E, infatti, ove non vi sia unità naturalistica, è sufficiente ai fini della configurazione del concorso apparente che vi sia unità normativa: e cioè che la situazione non si presenti rispetto ai fini delle norme, sostanzialmente diversa.
Di talché, l’inapplicabilità delle false comunicazioni sociali conseguiva all’applicabilità della frode fiscale, in quanto quest’ultima esauriva, con la sua valutazione dell’accadimento, l’intero significato di esso. Se così non fosse stato, l’applicazione di entrambe le norme sarebbe stata in contrasto con il principio del ne bis in idem sostanziale. Alla luce di tutte le considerazioni in allora svolte, si evidenziò che la sentenza n. 9567/1998 della Cassazione aveva creato una gran confusione. E che quindi era apprezzabile l’orientamento tradizionale della Cassazione (21), giacché faceva correttamente riferimento all’art. 15 del codice penale come opportuno criterio per evitare un’ingiustificata duplicazione di applicazione di fattispecie criminose, perciò il ritorno della Suprema Corte con la sentenza n. 4128/2000 all’affermazione della specialità era corretto.
A seguito di tali considerazioni si ritenne che anche in seguito alla riforma tra falso in bilancio e art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000, vi fosse un rapporto di concorso apparente a favore dell’art. 3. E ciò si sostenne, oltre che per le considerazioni già svolte e in virtù del trattamento penale più severo nell’ambito di un’unità normativa (22), anche per l’espressa clausola di riserva (23) in allora contenuta nell’art. 2621 del codice civile. Infatti, la pena massima prevista per quest’ultima fattispecie era di anni cinque, mentre per il citato art. 3 è di anni sei. Quanto, poi, agli elementi costitutivi dell’ art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000, un ulteriore fondamentale fattore era che il falso in bilancio effettuato al fine esclusivo di evadere era assorbito dalla fattispecie di cui al predetto art. 3: infatti, la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie era elemento costitutivo dell’art. 3. E ciò che è come una "gamba di un corpo", non poteva essere qualificato e punito nuovamente come entità a sé stante.
Richiamammo in allora l’istituto del reato complesso (24), che è ritenuto invece da taluni essere una mera applicazione del principio di specialità (25), per supportare ulteriormente la predetta considerazione di assorbimento. Infatti, l’istituto del reato complesso poteva avere anche una funzione di ampliamento del principio di specialità consentendo un maggiore raccordo di esso con il principio di consunzione. E alla luce della convergenza dei principi di specialità e consunzione, si giunse alla conclusione che il falso in bilancio con esclusiva finalità di evasione fiscale - non essendo espressione di un autonomo disvalore sociale ed in virtù del ne bis in idem sostanziale - fosse assorbito dalla dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. E si ritenne altresì che il d.lgs. n. 74/2000 avesse rafforzato tale interpretazione.
Infatti - mentre nell’ art. 4, lettera f), della L. n. 516/1982 si prevedevano, accanto alla condotta fraudolenta di supporto, in alternativa una dichiarazione infedele o un bilancio falso (26) - l’ art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000 (nel testo ante riforma d.lgs. n. 158/20125) era strutturato su una dichiarazione infedele supportata da un bilancio falso (la falsa rappresentazione nelle scritture contabili) e da una condotta fraudolenta di supporto. Vi era stata, in altre parole, una diversa combinazione degli stessi elementi tale, però, da rendere più evidente il menzionato assorbimento.
4. LE RIFORME APPORTATE DALLA LEGGE N, 69/2015 AL DIRITTO PENALE SOCIETARIO E DALLA LEGGE 158/2015 AL DIRITTO PENALE TRIBUTARIO
Per ragioni di brevità, si omette di riferire sulle ulteriori teorie e decisioni in materia formulate ed emesse in questi anni, perché i termini fondamentali dellavexata quaestiodel rapporto tra falso in bilancio e frode fiscale sono stati scolpiti dalle citate due sentenze della Cassazione, e si concentra l’attenzione sulla verifica dell’attualità o meno delle conclusioni in allora raggiunte dalla dottrina alla luce delle modifiche recenti apportate ai due noti delitti dalle menzionate riforme penale tributaria e societaria intervenute nel 2015.
Si citano, anzitutto, le modifiche apportate dalla legge n. 27 maggio 2015 n. 69, ed in particolare dall’art. 9, che ha sostituito il testo dell’art. 2621 cod. civ., disponendo che fuori dai casi previsti dall’art. 2622 per le società quotate, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni i soggetti attivi del reato (gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori), che al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.
La stessa disposizione prevede la stessa pena anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi. Autorevole dottrina ha evidenziato che a differenza del testo previgente non sono più rilevanti dal punto di vista del diritto penale societario le falsità estimative, e ciò deriva già dal raffronto letterale della nuova disposizione con la vecchia, in quanto è stata eliminata la locuzione "ancorchè oggetto di valutazioni" (28). Per quanto riguarda le modifiche apportate dal d.lgs. n. 158/2015, si evidenzia (29) che l’art. 3 del predetto decreto ha integralmente sostituito l’art. 3 del d.lgs. n. 74/2000.
Il nuovo testo dispone che costituisce dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (punita da un anno e sei mesi a sei anni di reclusione), la condotta di chi, al di fuori dei casi previsti dall’articolo 2, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto:1) compie operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero si avvale di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria; e 2) altresì indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi o crediti e ritenuti fittizi; 3) e quando, congiuntamente l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro trentamila; e l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al cinque per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro un milione cinquecentomila, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, è superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila.
Lo stesso art. 3 del d.lgs. n. 158/2015 prevede che il fatto si considera commesso avvalendosi di documenti falsi quando tali documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria; nonché che ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali.
Tale disposizione che ha innovato il testo dell’art. 3 del d.lgs. n. 74/2000 deve essere raccordata con l’art. 1 del d.lgs. n. 158/2015, il quale ha modificato altresì l’art. 1 del d.lgs. n. 74/2000 prevedendo che per "operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente" si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’articolo 10-bisdella legge 27 luglio 2000, n. 212 (cioè diverse dalle operazioni concretanti un abuso del diritto) poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti; e disponendo altresì che per "mezzi fraudolenti" si intendono condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà.
La riforma penale tributaria traccia un netto confine tra operazioni simulate, rilevanti dal punto di vista del diritto penale, e operazioni elusive costituenti abuso del diritto secondo la disposizone dell’art. 10 bisdella legge n. 212/2000 non rilevanti penalisticamente, ma soltanto dal punto di vista amministrativo tributario.
Inoltre, per il diritto penale tributario con riferimento alle falsità estimative, giova citare che, sempre per effetto del d.lgs. n. 158/2015 ai fini dell’applicazione del delitto di dichiarazione infedele previsto dall’art. 4 del medesimo d.lgs. n. 74/2000, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. 1-ter.
Al di fuori di tali casi non danno comunque luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b) dell’art. 4 del d.lgs. n. 74/2000.
5. CONCLUSIONI SUL RAPPORTO FRA FRODE FISCALE E FALSO IN BILANCIO, oggi....;
Ciò premesso, il rapporto fra frode fiscale e falso in bilancio oggi, dopo le predette riforme, può essere così delineato. Il testo ante riforma dell’art. 3 del d.lgs. 74/2000 prevedeva come elemento costitutivo indefettibile la falsa rappresentazione contabile, il nuovo stile post d.lgs. n. 158/2015 non lo prevede più, pertanto la frode fiscale può essere commessa anche da chi non è obbligato a tenere le scritture contabili ed è divenuta un reato comune. D’altro canto, la presenza di tale elemento all’interno del testo dell’art 3 vecchia versione consentiva una più facile applicazione dell’art. 15 del codice penale e di sancire quindi il concorso apparente nonché il principio di specialità tra frode fiscale e falso in bilancio realizzato per esclusiva finalità fiscale. Ora il discorso è più complicato in astratto, ma in concreto ad avviso di chi scrive (sulla scorta anche delle considerazioni storiche supraespresse) le conclusioni non cambiano.
Infatti, l’eliminazione della locuzione "falsa rappresentazione nelle scritture contabili" ha solo il significato di rendere più ampia la fattispecie di frode fiscale, estendendola anche a soggetti non obbligati alla tenuta di scritture contabili, ma non rende irrilevante il predetto elemento ove sia in concreto il supporto, come elemento interno, della frode fiscale. Se cioè oggi un contribuente pone in essere una frode fiscale (o un altro delitto tributario ad es. dichiarazione infedele ex art. 4 del d.lgs. n. 74/2000) ponendo in essere operazioni simulate ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri comportamenti fraudolenti, e se ciò lo fa mediante un falso in bilancio (cosi come ora modificato dalla legge n. 69/2015) per esclusive finalità fiscali, si applicherà sempre l’art. 15 del c.p. e quindi solo la frode fiscale. Depone in tal senso anche l’elemento soggettivo della frode fiscale ("al fine di evadere le imposte") che rappresenta una species del genus dell’elemento soggettivo del falso in bilancio ("al fine di conseguire per sé o altri un ingiusto profitto"). Al di fuori dell’ipotesi in cui le false comunicazioni sociali siano state poste in essere per un’esclusiva finalità fiscale, si applicheranno sia il delitto di falso in bilancio sia il delitto tributario, in virtù dell’art. 81 del codice penale.