LA “RIFORMA” DEL CATASTO SECONDO LA LEGGE DELEGA
di Fabio Ghiselli
La riforma del catasto ha trovato spazio nella bozza di legge delega al Governo per la revisione del sistema fiscale approvata dal Consiglio dei ministri lo scorso martedì 5 ottobre, nonostante il parere contrario di alcune forze politiche, di maggioranza e opposizione, e l’assenza del tema tra le priorità indicate nel “Documento conoscitivo” delle Commissioni Finanze e Tesoro di Camera e Senato, approvato il 30 giugno scorso a conclusione dell’indagine sulla riforma del sistema tributario.
La materia è disciplinata dall’art. 7, divisibile per oggetto in due parti, corrispondenti ai commi 1 e 2.
Con il primo comma il legislatore si concentra sugli immobili la cui posizione nei confronti del catasto può definirsi “irregolare” in quanto:
- non censiti o il cui accatastamento non corrisponde alla situazione di fatto in termini di consistenza, destinazione d’uso o categoria catastale;
- abusivi;
- o, per i terreni, sussista un disallineamento tra la qualificazione catastale “agricola” rispetto alla condizione di edificabilità.
In questo ambito, il Governo è delegato a:
- “prevedere strumenti, da porre a disposizione dei comuni e dell’Agenzia delle Entrate, atti a facilitare e ad accelerare l’individuazione e, eventualmente, il corretto classamento” delle suddette tipologie immobiliari, (lett. a);
- “prevedere strumenti e moduli organizzativi che facilitino la condivisione dei dati e dei documenti, in via telematica, tra l’Agenzia delle Entrate e i competenti uffici dei comuni nonché la loro coerenza ai fini dell’accatastamento delle unità immobiliari” (lett. b);
- “prevedere specifici incentivi e forme di trasparenza e valorizzazione delle attività di accertamento svolte dai comuni” nel contrasto all’abusivismo edilizio (lett. a, n. 3).
Dai contenuti di questa prima parte dell’articolato, si possono trarre alcune brevi osservazioni.
L’obiettivo – gli immobili “irregolari” - appare piuttosto bene identificato.
Tuttavia, in fase di stesura dei provvedimenti attuativi, sarebbe auspicabile che per i terreni edificabili fosse prevista una ricognizione e un migliore coordinamento con la disciplina normativa tributaria che contiene tale qualificazione. Mi riferisco all’art. 2, co. 3, del DPR n.633/72, all’art. 52, co. 4, DPR n.131/86, all’analogo art. 34, co.5, D.Lgs n. 346/90, nonché alla norma interpretativa contenuta nell’art. 36 della L n.248/2006 (di conversione del c.d. decreto “Visco-Bersani) che definisce quando un terreno è “suscettibile di utilizzazione edificatoria” senza però definire il concetto più tecnico di “utilizzazione edificatoria” che, come osservato dal Consiglio Nazionale del Notariato, “va tratto dalla concreta disciplina del diritto di costruire che l’ordinamento dà a un determinato terreno” [1]. Magari potrebbe essere il caso di prevedere una particolare qualificazione per i terreni “suscettibili di utilizzazione edificatoria” – per esempio introducendo una semplice lettera iniziale maiuscola – tenuto conto che “l’aspettativa di edificabilità di un suolo non comporta ai fini della valutazione fiscale, l’equiparazione sic et simpliciter alla edificabilità; comporta soltanto l’assoggettamento ad un regime di valutazione differente da quello specifico dei terreni agricoli” (Cass. S.U. n.25506-28.9.2006). Valutazione che “quindi, non può essere identica per un terreno già concretamente edificabile e per uno che invece attende il compimento dell’iter previsto dalla legge per poter procedere all’edificazione” [2].
Così come sarebbe auspicabile che la partecipazione dei Comuni all’accertamento andasse oltre la semplice incentivazione, che sin’ora non ha dato i frutti sperati, per raggiungere il carattere dell’obbligatorietà, fondato su una più stretta e sinergica collaborazione con l’Agenzia delle Entrate [3].
Abbastanza coerentemente con il titolo dell’art. 7, (Modernizzazione degli strumenti di mappatura degli immobili e revisione del catasto fabbricati), il secondo comma attribuisce al Governo il compito di “integrare” le informazioni presenti in catasto in tutto il territorio nazionale.
In qualche modo anticipando le conclusioni, mi sembra di poter affermare che la delega in esame non attribuisca un potere di “riformare” o di “rivedere” l’attuale sistema catastale, ma più semplicemente di integrarlo.
La lettera a) del co. 2, dispone, infatti di “attribuire a ciascuna unità immobiliare” “un valore patrimoniale e una rendita attualizzata in base, ove possibile, ai valori normali espressi dal mercato”, non in sostituzione delle attuali rendite, bensì a fianco o, letteralmente, “oltre alla rendita catastale determinata secondo la normativa attualmente vigente”. Valori e rendite che dovranno essere periodicamente adeguate “in relazione alla modificazione delle condizioni di mercato di riferimento e comunque non al di sopra del valore di mercato”.
Oltre alle suddette prescrizioni, il legislatore si preoccupa di disciplinare una adeguata riduzione del valore patrimoniale degli immobili riconosciuti di interesse storico o artistico, come individuati dall’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.lgs. n. 42/2004), per i quali sarebbe auspicabile anche una revisione organica della tassazione ai fini delle imposte dirette e indirette.
E’ agevole rilevare come su questi punti che afferiscono alla costruzione tecnica di rendite e valori più simili a quelli mercato, la delega sia piuttosto ampia nell’individuare i principi e i criteri direttivi richiesti dall’art. 76 Cost.. In realtà, proprio per la sua estrema tecnicità, ci saremmo aspettati qualcosa di più circostanziato e preciso. Il confronto con i contenuti dell’art. 2 (Revisione del catasto fabbricati) della L. n.23/2014 (Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita), mette in tutta evidenza il diverso livello di tecnicità, di approfondimento, di precisione e di estensione dei criteri di delega.
Del resto, come ho avuto modo di sottolineare in altra occasione, una delega specifica richiede una preventiva fase di studio nella quale dovrebbero essere attivate le categorie professionali che operano sul mercato immobiliare a garanzia della tecnicità della riforma. Considerato che ciò non è avvenuto, stante i tempi ristretti che si è dato il Governo, le modalità di realizzazione dell’impegno saranno stabilite dai decreti delegati nella più ampia autonomia possibile. Si confida solo che la fase tecnica di studio e realizzazione venga avviata in quella occasione, anche assumendo, qualora ritenuti ancora validi, i principi essenziali contenuti nella citata L. n.23/2014.
In questi giorni ha raggiunto livelli altissimi il timore che la riforma possa produrre un pesante incremento della tassazione immobiliare. Nei giorni precedenti l’approvazione della bozza di legge delega il Presidente Draghi ha affermato che “nessuno pagherà di più e nessuno pagherà di meno”, oltre a ribadire che è da escludere qualunque obiettivo di tassare la prima casa.
Nelle intenzioni del Governo, questo timore - che avrebbe potuto essere risolto anche con la previsione di una c.d. “clausola di salvaguardia”, tale da consentire di liquidare l’imposta secondo le rendite e i valori attualmente vigenti, congelando sine die gli effetti della revisione – è stato, almeno teoricamente, superato attivando due prescrizioni: la prima è quella che ho ricordato innanzi, contenuta nella lettera a) del co. 2, che dispone, infatti di “attribuire a ciascuna unità immobiliare” “un valore patrimoniale e una rendita attualizzata in base, ove possibile, ai valori normali espressi dal mercato”, non in sostituzione delle attuali rendite, bensì a fianco o, letteralmente, “oltre alla rendita catastale determinata secondo la normativa attualmente vigente”; la seconda è contenuta nella lettera e) del medesimo co. 2, a mente del quale le informazioni rilevate secondo i principi suddetti “non siano utilizzate per la determinazione della base imponibile dei tributi la cui applicazione si fonda sulle risultanze catastali”. Tale prescrizione assume, a mio parere, una rilevanza più stringente rispetto al principio dell’invarianza di gettito contenuto nella precedente L. n.23/2014, e garantisce che nulla cambi almeno fino al 1° gennaio 2026, quando, secondo il primo periodo del co. 2, le nuove informazioni saranno rese disponibili [4].
Ovvio che nulla vieta al legislatore, non appena si concretizzi la disponibilità delle suddette informazioni (dal 2026), di utilizzarle per determinare la base imponibile delle imposte, locali e nazionali, che gravano sugli immobili che, a parità di aliquote, potrebbe generare un incremento (selezionato) della tassazione (ma anche una selezionata riduzione). Così come nulla vieta di mantenere anche oltre tale data questo impegno, anche se, in tale caso, sarebbe difficile comprendere il senso di un intervento “riformatore”. Del resto, rimarrebbe comunque una prerogativa di una diversa maggioranza politica di governo incrementare l’imposizione sugli immobili senza una preventiva revisione delle rendite e dei valori catastali.
In conclusione, vorrei riprendere alcune considerazioni già fatte sulla rilevanza della riforma del catasto e sulla necessità di intraprenderla.
Le attuali rendite catastali sono fondate su valori del 1989-1990 per i fabbricati e del 1978 per i terreni, aggiornati da inefficienti moltiplicatori; sono da due a tre volte inferiori alla redditività effettiva riscontrabile sul mercato; la differenza tra valori catastali e quelli reali è mediamente pari a 2 volte, che sale a 4 o 5 per gli immobili dei centri storici e scende a 1 per quelli nuovi, con differenze di valore che premiano i possessori di immobili di maggiore pregio; non è nemmeno omogenea, né tra Comuni né all’interno dello stesso territorio comunale, a causa di diversi processi di sviluppo e non uniformi localizzazioni di servizi e infrastrutture pubbliche.
Questo insieme di condizioni genera effetti negativi in termini di equità orizzontale e verticale e sperequazioni tra i diversi proprietari immobiliari. Ragione per cui, dopo i numerosi tentativi andati a vuoto negli ultimi trent’anni, dovremmo tutti sperare nel successo dell’iniziativa.
Considerate le numerose sperequazioni e iniquità che caratterizzano l’attuale sistema, sarebbe viceversa auspicabile che, nel breve-medio periodo, l’imposizione subisse un rieliquilibrio tra i diversi proprietari delle differenti tipologie di immobili, perché lo scopo finale di una riforma di sistema, che tutti auspicano, dovrebbe mirare a risolvere con decisione proprio queste distorsioni.
Ma questo obiettivo non può fondarsi su aprioristici quanto inconsistenti dimezzamenti di aliquote, i cui effetti redistributivi sarebbero inadeguati oltreché scomposti.
Più opportunamente, la riforma del catasto dovrebbe rappresentare la base, e al tempo stesso l’occasione, per avviare una profonda revisione dell’imposizione immobiliare, compreso quella locale, che contiene imposte patrimoniali esose mascherate da imposte d’atto (ad es. l’imposta di registro sui trasferimenti, l’IMU sulle seconde case e sugli immobili commerciali). La discussione non può concentrarsi sul tassare o no la prima casa, ma sull’applicare una “giusta imposta” su manifestazioni di ricchezza che esprimono una significativa capacità contributiva. Per questo si dovrebbe iniziare a ragionare senza preclusioni e ideologismi, sull’opportunità di tassare la ricchezza nel suo complesso, oltre un certo livello, senza distinzioni tra i differenti modi di impiego. Con il fine di non penalizzare il mercato e di contribuire allo sviluppo.
[1] CNN, La qualificazione urbanistica dei terreni: effetti sulle imposte indirette, Studio n.16-2018/T. Sul punto si veda anche la recente risposta a interpello dell’Agenzia delle Entrate, n.278/2021.
[2] CNN, op. loc. cit.
[3] Di questo tema ne parlo più diffusamente nel mio libro Giù le tasse ma con stile!, ed. F. Angeli, 2019.
[4] In realtà, come ho già rilevato in altra occasione, una riforma come quella del catasto non dovrebbe contenere il principio del tutto inopportuno e inconferente dell’invarianza di gettito delle singole imposte. Semplicemente perché è fondata su criteri tecnici che non possono essere contaminati, subordinati e strumentalmente piegati per raggiungere un obiettivo estraneo – di gettito o anche di politica fiscale - a quello eminentemente tecnico catastale. Come giustamente osservava l’allora Direttore dell’Agenzia delle Entrate, il Gen. Antonino Maggiore, “gli effetti sul gettito fiscale di una riforma del sistema estimativo dei fabbricati non dipendono dalle scelte tecniche sulle modalità di determinazione di valori e rendite, bensì dalle scelte di politica tributaria”.